
Vittima di stupro: lo Stato deve garantire un indennizzo equo e adeguato
Una direttiva del 2004 imponeva agli Stati membri di adottare un sistema di indennizzi a favore delle vittime di reati violenti. L’Italia vi dà attuazione, con grande ritardo, solo nel 2017. Una donna, vittima di stupro, agisce in giudizio contro il Governo, al fine di ottenere il risarcimento per la mancata trasposizione della direttiva.
L’iter processuale, iniziato nel 2009, è assai complesso, stante la contestuale procedura d’infrazione promossa contro l’Italia e le questioni pregiudiziali sollevate, prima, dal giudice di merito e, poi, dalla Corte di Cassazione. I giudici di legittimità, recependo le decisioni comunitarie, affermano che le vittime di reati violenti, anche residenti nello stesso paese in cui è avvenuto il fatto (cosiddette “vittime non transfrontaliere”), abbiano diritto ad un indennizzo che non sia puramente simbolico e che sia parametrato alla peculiarità del crimine e alla sua gravità. Per ottenerlo, la vittima deve trovarsi nella condizione di oggettiva difficoltà nell’agire esecutivamente contro l’autore del reato, mentre non è richiesta l’assoluta impossibilità di farlo. Inoltre, non bisogna confondere il danno patito dalla vittima per la ritardata trasposizione della direttiva con quello scaturente dal fatto illecito, in quanto dal primo deriva il diritto al risarcimento e dal secondo il diritto all’indennizzo.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 24 novembre 2020, n. 26757 (testo in calce), emessa proprio alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, riconosce alla vittima di stupro il risarcimento, tenendo conto anche del maggior danno subito da chi non abbia potuto usufruire del vantaggio offerto dalla direttiva a causa del ritardo nel recepimento. Dall’importo risarcitorio, riconosciuto dai giudici, viene defalcata – e non cumulata – la somma, percepita dalla vittima, a titolo di indennizzo, in virtù della compensatio lucri cum danno.
La vicenda
Una donna, appena diciottenne, veniva aggredita e violentata da due cittadini rumeni. Gli stupratori venivano condannati a più di dieci anni di reclusione, oltre al risarcimento del danno; alla vittima veniva assegnata una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 50 mila euro. Tuttavia, gli autori del reato si davano alla latitanza e la donna non riceveva nulla. La vittima, cittadina italiana di origini romene, evocava in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, affinché ne venisse dichiarata la responsabilità per la mancata e non integrale attuazione della direttiva (2004/80/CE) relativa all’indennizzo delle vittime di reato. In particolare, la normativa comunitaria imponeva agli Stati membri di introdurre una tutela indennitaria entro il luglio del 2005. Il Governo si difendeva deducendo, tra le altre argomentazioni, che la disciplina citata riguardasse solo situazioni transfrontaliere e non interne. Il tribunale adito accertava l’inadempimento della Presidenza del Consiglio e la condannava al pagamento di 90 mila euro a favore della donna, oltre alla refusione delle spese di lite. In sede di gravame, la sentenza veniva riformata solo nel quantum, diminuito a 50 mila euro, atteso che si trattava di un indennizzo e non di un risarcimento. Si giungeva così in Cassazione.
Ricostruzione del complesso iter processuale
La vicenda processuale, principiata nel 2009, segue un complesso iter anche a causa dei diversi rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e del procedimento d’infrazione avviato contro l’Italia. Di seguito, si tratteggiano le tappe più significative del procedimento, al fine di agevolare la comprensione della decisione in commento.
- Nel settembre 2014, la Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia (causa C-601/14) per omessa adozione delle misure idonee a garantire un indennizzo alle vittime dei reati violenti (art. 12, par. 2 direttiva 2004/80/CE);
- nel maggio 2015, il tribunale di Roma ha formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte UE sull’interpretazione dell’art. 12 par. 2 direttiva 2004/80/CE;
- nel maggio 2015, la causa è stata discussa in Cassazione, ma è stata emessa un’ordinanza interlocutoria (18003/2015) con la quale si rinviava a nuovo ruolo, in attesa delle due pronunce della Corte UE;
- nell’ottobre 2016 e nel febbraio 2017 la Corte UE ha deciso rispettivamente sul ricorso per inadempimento e sulla questione pregiudiziale;
- nell’ottobre 2017, la Corte di Cassazione ha emesso un’altra ordinanza interlocutoria (1196/2018) stante la presenza di una legge sopravvenuta (legge 167/2017, modificativa della legge 122/2016);
- nel gennaio 2019, la Suprema Corte ha emesso un’altra ordinanza interlocutoria (2964/2019) avente ad oggetto un ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte UE, contenente due quesiti, il primo sulla responsabilità dello Stato, verso soggetti non transfrontalieri, per mancato recepimento della direttiva; il secondo, sulla possibilità di considerare equo un indennizzo stabilito in misura fissa e pari a 4.800 euro.
Riferimenti normativi
La pronuncia fa riferimento segnatamente alla direttiva a cui lo Stato italiano non ha dato tempestivamente attuazione e alla legge sopravvenuta ai fatti di causa, con le successive modificazioni.
- Direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato; in particolare, viene in rilievo l’art. 12 par. 2 a mente del quale:
«Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime». - Legge 122/2016 relativa alla disciplina sull’indennizzo in favore delle vittime di reati interazionali violenti.
- Legge 167/2017, modificativa della legge 122/2016, all’art. 6 stabilisce il diritto all’indennizzo anche alle vittime di reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge 122/2016 (efficacia retroattiva); la domanda andava proposta entro 120 giorni dall’entrata in vigore (12.12.2017), termine prorogato, prima dalla legge 145/2018 e poi dalla legge 8/2020, sino al 31.12.2020.
- D.M. 31 agosto 2017 recante la “Determinazione degli importi dell’indennizzo alle vittime dei reati intenzionali violenti”, che stabilisce per il reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) l’indennizzo nell’importo fisso di euro 4.800 (art. 1 c. 1 lett. b).
- D.M. 22 novembre 2019, che abroga il D.M. di cui sopra, stabilendo per il delitto di violenza sessuale l’indennizzo nell’importo fisso di euro 25.000 (art. 1 c. 1 lett. c), incrementabile sino ad un massimo di euro 10.000 per spese mediche e assistenziali.
Differenza tra indennizzo e risarcimento
La pretesa azionata dalla donna non riguardava l’indennizzo, stabilito dalla legge 122/2016, a favore delle vittime dei reati violenti. Ella domandava il risarcimento per il danno derivante dall’inadempimento statuale all’obbligo di trasporre tempestivamente la direttiva comunitaria (2004/80/CE). Si tratta di due domande distinte per petitum e causa petendi. Infatti:
- l’indennizzo è una prestazione indennitaria stabilita dalla legge; si tratta di un’obbligazione ex lege da assolversi nei confronti degli aventi diritto (Cass. 24474/2020);
- il risarcimento per omessa o tardiva trasposizione di una direttiva non self executing rientra nello schema della responsabilità contrattuale, in quanto nascente ex contractu e non ex delicto. Infatti, secondo la giurisprudenza (Cass. 10813/2011; Cass. 30502/2019), si tratta di una «responsabilità che, in ragione della natura antigiuridica del comportamento omissivo dello Stato anche sul piano dell’ordinamento interno, e dovendosi ricondurre ogni obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c., va inquadrata nella figura della responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì da un illecito ex contractu e cioè dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente».
La circostanza che la vittima del reato violento possa ricevere l’indennizzo, a causa dell’applicazione retroattiva della legge, non esclude che abbia subito dei danni ulteriori dal ritardato adempimento dello Stato. La stessa Corte UE, all’esito del procedimento d’infrazione, ha riconosciuto che l’Italia non ha adottato le misure adeguate richieste per l’equo indennizzo delle vittime di reati internazionali violenti, ai sensi dell’art. 12 par. 2 della direttiva (sent. 11.10.2016, Commissione contro Italia, C-601/14).
Interpretazione della direttiva
Il citato art. 12 par. 2, attorno a cui ruota tutta la decisione, secondo la Corte UE, deve essere interpretato nel senso che:
- garantisce al cittadino dell’UE il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno Stato membro nel quale si trova, nell’ambito dell’esercizio del proprio diritto alla libera circolazione,
- impone a ciascuno Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio.
Tale obbligo riguarda qualsiasi reato intenzionale violento commesso sul territorio dello Stato membro, come la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.).
Tutela sia alle vittime interne che transfrontaliere
La Presidenza del Consiglio adduce che la direttiva riguardi unicamente le vittime trasfrontaliere, a tal proposito, la Suprema Corte ha operato un rinvio pregiudiziale sottoponendo ai giudici europei due questioni interpretative:
- se ricorra la responsabilità dello Stato, verso soggetti interni (e non transfrontalieri), per mancato recepimento della direttiva;
- se possa considerarsi equo un indennizzo stabilito in misura fissa e pari a 4.800 euro.
Preme rimarcare, in ordine al primo quesito (lett. a), che la giurisprudenza eurounitaria sembrava chiara nell’affermare la portata transfrontaliera dell’obbligo previsto dal mentovato art. 12 par. 2 della direttiva1. In buona sostanza, secondo tale lettura, la direttiva pareva applicabile a chi fosse rimasto vittima di un reato intenzionale violento commesso nel territorio di Stato membro non di propria residenza. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sent. 16.07.2020, C-129/2019) ha affermato che:
- il diritto dell’UE vada interpretato nel senso che lo Stato membro possa dirsi responsabile per il danno causato dalla mancata trasposizione tempestiva dell’art. 12, par. 2 della direttiva, nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro, nel cui territorio il reato intenzionale violento è stato commesso.
In altre parole, la disposizione della direttiva si rivolge a tutte le vittime di reati intenzionali violenti e non solo a quelle che si trovino in una condizione transfrontaliera. Quindi, anche i soggetti residenti possono ottenere un indennizzo, qualora siano vittime di tali reati.
Difficoltà (e non assoluta impossibilità) dell’azione della vittima contro il reo
La circostanza, addotta dal Governo, secondo cui la vittima non avrebbe provveduto a dare esecuzione alla provvisionale, è destituita di fondamento. La direttiva richiede che la vittima cerchi di conseguire il risarcimento dagli autori del reato. Nondimeno, nel caso di specie, i rei si erano dati alla latitanza, pertanto, non era stata possibile alcuna forma di recupero coattivo del credito. Del resto, la vittima è “esonerata” dall’esercizio dell’azione esecutiva sia in caso di mancata individuazione del reo che di insufficienza delle risorse economiche in capo al soggetto agente. In tal senso, depone anche la legge 122/2016 (art. 12 c. 1 lett. b) secondo cui la vittima ha diritto all’indennizzo qualora abbia esperito infruttuosamente l’azione esecutiva verso il reo, ad eccezione dei casi in cui:
- l’autore del fatto resti ignoto,
- sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
Il risarcimento da inadempimento statuale: il quantum debeatur
La Presidenza del Consiglio lamenta che il giudice d’appello abbia liquidato la somma dovuta in 50 mila euro, cifra equivalente alla provvisionale stabilita in sede penale. In tal modo, si è confusa l’obbligazione indennitaria dello Stato con quella risarcitoria, preordinata all’integrale ristoro del danno. Tale doglianza viene accolta dalla Suprema Corte solo parzialmente. Infatti, gli ermellini confermano il quantum stabilito in sede di gravame (ossia 50 mila euro), ritenendolo corretto, atteso che la vittima aveva chiesto il risarcimento di tutti i danni, patiti e patendi; come vedremo, dall’importo così quantificato va detratto quanto già ricevuto dalla donna a titolo di indennizzo. Di seguito, il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità volto a confermare la congruità del risarcimento come quantificato in sede d’appello.
Dunque, la responsabilità dello Stato per omessa o ritardata trasposizione della direttiva ha natura contrattuale, da cui consegue l’obbligo del risarcimento del danno. Gli effetti pregiudizievoli subiti dalla vittima (danno emergente e lucro cessante) vanno ristorati integralmente o con valutazione equitativa laddove non siano dimostrabili nel loro preciso ammontare (art. 1226 c.c.). Il parametro per valutare il pregiudizio patito dalla vittima per la tardiva attuazione della direttiva è costituito dall’ammontare dell’indennizzo di cui avrebbe avuto diritto ab origine «come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale a quello dell’Unione».
Ciò premesso, occorre distinguere tra:
- l’indennizzo – equo ed adeguato – di cui ha diritto la vittima ex art. 12 par. 2 della direttiva,
- e il risarcimento del danno, in sede civile, come conseguenza del reato di violenza sessuale.
L’indennizzo in misura fissa è iniquo e inadeguato
Nel caso di specie, la vittima, non transfrontaliera, si era vista riconoscere il proprio diritto all’indennizzo solo a seguito della legge 167/2017 (modificativa della legge 122/2016):
- dapprima, nella misura fissa d 4.800 euro (in base al D.M. 31.08.2017),
- successivamente, nella misura fissa di 25.000 euro (in base al D.N. 22.11.2019).
Orbene, la seconda questione pregiudiziale sollevata dalla Suprema Corte (Ord. 2964/2019) riguarda proprio l’equità e l’adeguatezza di un indennizzo stabilito in misura fissa. La Corte UE (sent. 16 luglio 2020 C- 129/2019) ha statuito che l’art. 12, par. 2, direttiva 2004/80, debba essere interpretato nel senso che:
- «un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito».
Quindi, l’indennizzo non deve essere puramente simbolico e, se quantificato in via forfettaria, deve comunque considerare la peculiarità del crimine e la sua gravità.
Correlazione tra indennizzo e risarcimento
Ai fini della decisione in commento occorre ricordare la correlazione tra:
- indennizzo ai sensi dell’art. 12 direttiva e risarcimento per illecito comunitario,
- indennizzo ai sensi dell’art. 12 direttiva e risarcimento del danno da reato,
L’indennizzo ex direttiva 2004/80/CE e il risarcimento del danno civile a favore della vittima, seppur non coincidenti quanto ai presupposti, titoli dell’erogazione e consistenza economica, mirano a ristorare il danno morale e materiale subito dalla vittima: il primo (ossia l’indennizzo) in misura non integrale come, invece, il secondo (vale a dire il risarcimento del danno da reato).
Nel caso di specie, la vittima ha chiesto il risarcimento per tutti i danni, patiti e patendi, quindi, anche di quelli derivati dal “mancato godimento” del beneficio, pertanto, il quantum debeatur risulta ancorato ad una perdita (morale e materiale) patita dall’attrice, perdita accresciuta vieppiù dal tempo trascorso in attesa della trasposizione della direttiva.
La compensatio lucri cum damno
La Corte d’Appello ha condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento di 50 mila euro, da tale importo vanno detratti i 25 mila euro percepiti – medio tempore – dalla vittima, in applicazione del principio della compensatio lucri cum danno.
Ricordiamo che la compensazione del lucro con il danno è un principio secondo il quale la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato, che hanno causa immediata e diretta nel fatto dannoso (C. M. BIANCA, La responsabilità, 5, Milano, Giuffrè, 1994, 150 ss.). Secondo la giurisprudenza (Cass. S.U. 12564/2018; Cass. S.U. 12567/2018), la compensatio trova il proprio referente normativo nell’art. 1223 c.c. che contiene:
- il principio di indifferenza, ossia il patrimonio del danneggiato non deve patire le conseguenze negative derivate dal fatto illecito, ma neppure giovarsi di questo;
- la regola della causalità giuridica, a mente della quale il danno e il vantaggio devono essere collegati eziologicamente all’illecito e ciò a prescindere dal titolo attributivo (legge o contratto).
Oltre al nesso causale tra illecito e beneficio, occorre indagare la ragione giustificatrice del beneficio. Infatti, solo se la causa della sua attribuzione ha una funzione analoga a quella risarcitoria, propria dell’illecito, è possibile lo scomputo (cosiddetto “defalco”) dal risarcimento stesso. Alla fattispecie in esame, si applica il principio secondo il quale nelle «ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria (…) vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa» (Cass. S.U. 12564/2018; Cass. S.U. 12567/2018; Cass. 31007/2018; Cass. S.U. 584/2008, Cass. 6573/2013).
Il dettato normativo che impone il defalco
Oltre a quanto sopra esposto, anche il dettato normativo prevede il defalco. Infatti, la legge 122/2016 (come modificata dalla legge 167/2017 e dalla legge 145/2018) dispone, all’art. 12 c. 1, che l’indennizzo sia dovuto alle seguenti condizioni:
- lett. e) “la vittima non abbia percepito, in tale qualità e in conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro di importo pari o superiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11”;
- lett. e-bis) “se la vittima ha già percepito, in tale qualità e in conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro di importo inferiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11, l’indennizzo di cui alla presente legge è corrisposto esclusivamente per la differenza”.
Conclusioni: i principi espressi
I principi espressi nella lunga e complessa sentenza della Cassazione possono così riassumersi:
- le vittime di reati intenzionali violenti, commessi in Italia (cosiddette “vittime non transfrontaliere”) hanno diritto al risarcimento del danno per tardiva trasposizione dell’art. 12 par. 2 direttiva 2004/80/CE, che impone agli Stati membri di riconoscere un indennizzo a tali vittime per i fatti verificatisi nei loro territori;
- l’indennizzo spetta alle vittime di ogni reato intenzionale violento commesso nel territorio di uno Stato e, quindi, anche in relazione al delitto di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.); per ricevere il ristoro le vittime non devono instaurare un giudizio civile verso degli autori del fatto, se si sono resi latitanti;
- l’indennizzo deve essere equo e adeguato, non può essere meramente simbolico ma, se determinato in via forfettaria, deve tenere conto delle peculiarità del crimine e della sua gravità;
- dall’ammontare riconosciuto alle vittime, a titolo di risarcimento del danno per la tardiva trasposizione del mentovato art. 12 par. 2 deve essere detratta (cosiddetto “defalco”) la somma loro corrisposta quale indennizzo (ex lege 122/2016 e successive modifiche) in virtù della “compensatio lucri cum damno”.
La Suprema Corte, all’esito di un articolato iter delibativo, accoglie solo l’ultimo motivo di ricorso presentato dalla Presidenza del Consiglio, pertanto, cassa la sentenza in relazione a tale motivo. Dal momento che il fatto sopravvenuto del pagamento dell’indennizzo – verificatosi in corso di causa – non necessita di ulteriori accertamenti di fatto, la causa viene decisa nel merito (ex art. 384 c. 2 c.p.c.) e il ricorrente viene condannato al risarcimento della differenza tra i 50 mila euro – stabiliti in appello – e i 25 mila euro ricevuti dalla vittima a titolo di indennizzo, oltre interessi; inoltre, segue la condanna al pagamento delle spese legali.
CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 26757/2020 >> SCARICA IL PDF
fonte altalex.com