
Scuola, no al panino da casa!
Le Sezioni Unite si pronunciano sulla controversa questione riguardante la configurabilità di un diritto soggettivo dei genitori degli alunni di scuole elementari e medie di scegliere tra l’autorefezione scolastica e il pasto portato da casa (sentenza n. 20504/2019 – scarica il testo in calce).
Sommario
1. La questione “panino da casa”
1. La questione “panino da casa”
Ancora una volta si torna a discutere dei servizi scolastici e, tra le righe, di quella che è la differenza tra il figlio di “…” e quello che non si può permettere certi lussi, come la retta della mensa scolastica. Potrebbe apparire banale ma il numero delle famiglie italiane che non può permettersi di far mangiare i figli a scuola è elevato (si stima che il prezzo medio di un singolo pasto ammonti a 4 euro), e la questione è più volte arrivata nelle aule di giustizia.
Stavolta il legal speaker di turno è addirittura il massimo consesso di Piazza Cavour, il quale, a chiare lettere, ha sentenziato l’inesistenza di un “diritto soggettivo” a mangiare il panino portato da casa “nell’orario della mensa e nei locali scolastici”, rilevando che la gestione del servizio di refezione è rimesso “all’autonomia organizzativa” delle scuole.
2. I gradi di merito
Il caso esaminato si è svolto a Torino e il giudice di merito, in prima battuta, aveva chiuso le porte della mensa scolastica al cibo preparato dalla famiglia: in primo grado il Tribunale aveva optato per la tesi esposta dall’Amministrazione torinese (contrapposta a quella di un cospicuo gruppo di genitori di bambini di scuola prima e secondaria di primo grado), escludendo un diritto alla prestazione mensa con modalità particolareggiate, differenti da quelle previste dalla normativa vigente, o ad un servizio alternativo rispetto a quello interno alla scuola, per chi intende consumare il pasto preparato in casa.
La Corte d’Appello di Torino, in seguito, aveva affermato la sussistenza, alla luce della disciplina vigente e dei principi costituzionali in materia di diritto all’istruzione, all’educazione e all’autodeterminazione inerenti le scelte alimentari, di diritti soggettivi dei genitori degli alunni delle scuole dell’obbligo, sia all’opzione, per i propri figli, tra il servizio di ristorazione scolastica ed il pasto portato da casa, sia il relativo consumo negli ambienti scolastici nello stesso orario del servizio di ristorazione. Quindi il Comune di Torino ha depositato ricorso, che ha visto il placet degli ermellini romani.
3. L’istituzione scolastica
Il collegio delle Sezioni Unite ha evidenziato che l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano in modo libero i diritti degli alunni, e il rapporto con l’utenza non va inquadrato in termini meramente negoziali, bensì viene identificato in un luogo ove lo sviluppo della personalità dei singoli discenti, e la valorizzazione delle particolarità individuali, devono realizzarsi nei limiti della compatibilità con gli interessi degli ulteriori alunni e della comunità, così invocando le regole del reciproco rispetto, della tolleranza, della condivisione.
4. Il ruolo dei genitori
Viene rilevato che i genitori “sono tenuti nei confronti di genitori degli alunni portatori di interessi contrapposti all’adempimento dei doveri di solidarietà sociale, oltre che economica, richiesti per l’attuazione anche dei diritti inviolabili dell’uomo, a norma dell’articolo 2 della Costituzione”.
5. Il principio di diritto
E’ stato quindi riconosciuto “il principio secondo cui un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabile e, quindi, non può costituire oggetto di accertamento da parte del giudice ordinario, in favore degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado”.
CASSAZIONE CIVILE, SS.UU., SENTENZA N. 20504/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
continua
Uso del cellulare: riconosciuto il nesso con alcuni tipi di tumore
Il giudice territoriale di Torino ha confermato la pronuncia del Tribunale di Ivrea, del 2017, che aveva sentenziato sul rapporto tra l’uso del cellulare e l’insorgenza dei tumori.
La vicenda riguarda un dipendente Telecom affetto da neurinoma del nervo acustico.
La vicenda
Un dipendente di Telecom Italia ha passato 15 anni della sua vita professionale utilizzando il telefonino, per oltre tre ore al giorno e senza protezioni. Gli veniva diagnosticato un neurinoma al nervo acustico, neoplasia di indole benigna, tuttavia invalidante. Portata la vicenda sui banchi della giustizia, il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice del Lavoro di Ivrea aveva riconosciuto un danno biologicopermanente pari al 23%, così comportando alla condanna dell’INAIL al pagamento di un’indennità vitalizia, da malattia professionale, di circa 500 euro mensili.
Il nesso causale
Il tempo trascorso, in misura considerevole al cellulare e l’insorgenza del tumore al cervello sono collegati causalmente, secondo la Corte d’Appello di Torino. Per gli stessi togati “esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo i criteri probabilistici ‘più probabile che non’”. I giudici territoriali hanno infatti confermato il dictum, già emesso in prima battuta dal Tribunale di Ivrea e con cui, nell’aprile 2017, l’Inail era stata condannata a corrispondere al lavoratore in questione una rendita vitalizia da malattia professionale.
Il rischio
Secondo uno studio occorrono solamente 30 minuti al giorno per otto anni, trascorsi col telefonino all’orecchio per essere a rischio di tumore.
Lo studio dell’ISS
La sentenza, che ha condiviso la lettura assegnata dalla consulenza tecnica, riconosce il nesso eziologico tra impiego massiccio del cellulare ed insorgenza di tumori al cervello, ma l’Istituto superiore di Sanità, che ha condotto una metanalisi degli studi pubblicati dal 1999 al 2017, qualche mese fa, pubblicandone gli esiti, ha concluso che, sulla base delle evidenze epidemiologiche attualmente a disposizione, l’utilizzo del telefono cellulare non risulta associato all’incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenza nel corso delle chiamate vocali.
Più in dettaglio, il Rapporto Istisan “Esposizione a radiofrequenze e tumori” curato da Istituto superiore di sanità, Arpa Piemonte, Enea e Cnr-Irea, pur affermando che i dati attuali “non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia”, rileva che, dalla metanalisi dei molteplici studi pubblicati in quasi due decenni, non si evidenziano incrementi dei rischi di tumori maligni o benigni in relazione all’impiego prolungato (dato fissato a 10 anni) dei telefoni mobili.
Gli esperti dell’ISS hanno inoltre rilevato, nello stesso Rapporto, che “i notevoli eccessi di rischio osservati in alcuni studi non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che, a quasi 30 anni dall’introduzione dei cellulari, non hanno risentito del rapido e notevole aumento della prevalenza di esposizione”.
Guardando al domani, e in particolare alle reti 5G, per stesso studio le emittenti aumenteranno, tuttavia avranno potenze medie inferiori a quelle degli impianti correnti, e la rapida variazione temporale dei segnali dovuta all’irradiazione indirizzabile verso l’utente (beam-forming) comporterà un’ulteriore diminuzione dei livelli medi di campo negli spazi circostanti.
continua
Auto blocca l’accesso al cortile condominiale: è violenza privata
Chi impedisce alle altre automobili di accedere al cortile comune risponde del reato di violenza privata.
Questo è quanto emerge dalla sentenza 19 dicembre 2019, n. 51236 (testo in calce) della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il caso vedeva un uomo essere ritenuto responsabile del delitto di cui all’art. 610 c.p., perché si rifiutava di rimuovere la propria automobile parcheggiata all’ingresso di un cortile in uso anche ad altro condomino, così impedendo a quest’ultimo di accedere al garage e di prelevare attrezzi di sua proprietà che erano ivi depositati.
La norma dispone che chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa sia punito con la pena della reclusione fino a quattro anni, aumentata nel caso in cui ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’art. 339 c.p., ovvero se la violenza o la minaccia siano commesse con armi, da persone travisate, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o solo supposte.
La disposizione mira quindi a tutelare l’interesse dello Stato a garantire a ciascun soggetto la libertà morale, ovvero la facoltà di autodeterminarsi liberamente, di essere libero e di sentirsi come tale, sempre nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento giuridico. Il bene giuridico tutelato è, quindi, la libertà psichica della persona, che non deve essere pregiudicata da un qualsivoglia comportamento violento o intimidatorio idoneo a determinare una coartazione, diretta o indiretta, sulla libertà di azione delle persone.
Secondo la difesa dell’imputato nella fattispecie non poteva ritenersi sussistente la fattispecie di violenza privata in quanto il rifiuto addebitato non poteva dirsi equiparabile alla violenza o alla minaccia richieste per l’integrazione del reato.
Di diverso avviso la Cassazione: secondo gli ermellini, infatti, per quanto attiene la configurabilità del reato di cui all’art. 610 c.p., la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l’accesso alla persona offesa, considerato che, ai fini della sussistenza della fattispecie, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (Cass. pen., Sez. V, 24 febbraio 2017, n. 29261; Cass. pen., Sez. V, 13 aprile 2017, n. 48369).
Con tale decisione la Suprema Corte conferma l’indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato, ritenuto oramai assolutamente dominante, che si inserisce in un fenomeno in crescente aumento, che vede dette condotte punibili non solo nel caso in cui il soggetto agente impedisca l’accesso ad un cortile comune ma anche qualora detta condotta impedisca l’accesso ai garage condominiali.
CASSAZIONE PENALE, SENTENZA N. 51236/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2020/02/04/auto-blocca-accesso-cortile-condominiale-violenza-privata
continua
Associazioni non riconosciute: possibile l’esclusione di un socio per gravi motivi
L’art. 24, terzo comma c.c., secondo cui l’esclusione di un associato è possibile solo in presenza di gravi motivi, è applicabile anche alle associazioni non riconosciute.
Ne consegue che in caso di impugnazione della delibera ad opera dell’associato, il giudice dovrà valutare la legittimità formale e sostanziale del provvedimento di esclusione, tenendo conto che la “gravità dei motivi” è un concetto relativo, la cui valutazione è strettamente connessa al modo in cui gli associati lo hanno inteso nell’ambito dell’autonomia loro riconosciuta.
Questo è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione (sezione I civile) che con l’ordinanza 16 settembre 2019, n. 22986 ha accolto il ricorso proposto, muovendo da un’interpretazione estensiva della norma codicistica citata.
Sommario
- I fatti di causa
- Il ricorso per cassazione: i motivi
- L’interpretazione estensiva dell’art. 24 c.c.
- La pronuncia della Corte
I fatti di causa
La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Catania, che dichiarava nulla la delibera con cui un istituto medico aveva disposto l’esclusione di un’associata, rigettando anche la domanda di risarcimento danni avanzata dall’istituto nei confronti della donna.
All’esito dell’impugnazione proposta dal soccombente la Corte d’Appello di Catania confermava la pronuncia di primo grado, ritenendo che i fatti imputati all’associata fossero troppo generici, dunque inidonei a consentirle un adeguato esercizio del diritto di difesa.
La valutazione – osservava la Corte – era peraltro confermata dal contenuto della lettera di contestazione degli addebiti precedentemente indirizzato all’associata.
Il ricorso per cassazione: i motivi
Di avviso contrario l’istituto medico, che impugnava la sentenza per cassazione denunciandone l’illogicità e l’assoluta carenza di motivazione.
Evidenziava in particolare come l’asserita genericità dei comportamenti imputati all’associata fosse in realtà contraddetta dal dato fattuale: sia la lettera di contestazione, sia la delibera impugnata contenevano infatti specifici e puntuali addebiti, integrando peraltro i gravi motivi di esclusione previsti dallo statuto associativo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 24 c.c.
La pronuncia della Corte di Cassazione muove dall’analisi dell’art. 24 c.c., dettato in materia di recesso ed esclusione degli associati.
Il terzo comma della norma prevede in particolare che l’assemblea può deliberare l’esclusione degli associati soltanto se ricorrono gravi motivi e che gli esclusi possono ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno di notifica della delibera.
Privilegiando un’interpretazione estensiva della norma, la Cassazione la ritiene applicabile anche alle associazioni non riconosciute.
Aggiunge inoltre che qualora l’associato decida di impugnare la delibera di esclusione, il giudice adito potrà e dovrà accertare la legittimità del provvedimento di espulsione sotto un duplice profilo, formale e sostanziale.
Dovrà quindi verificare che l’esclusione sia stata deliberata nel rispetto delle regole procedurali stabilite dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, ma anche che sia legittima dal punto di vista sostanziale, valutando cioè la sussistenza di una delle ipotesi di risoluzione del rapporto associativo previste dalla legge e dall’atto costitutivo (così Cass. 18186/2004).
La Corte osserva poi che la gravità dei motivi posti alla base di un provvedimento di esclusione è un concetto relativo, la cui valutazione non può prescindere dal modo in cui gli stessi associati lo hanno inteso nell’ambito dell’autonomia associativa loro riconosciuta.
Ne consegue pertanto che se l’atto costitutivo contiene già una descrizione dei motivi ritenuti di gravità tale da provocare l’esclusione dell’associato, l’accertamento giudiziale dovrà limitarsi a verificarne la sussistenza nel caso di specie.
Qualora invece l’atto costitutivo non contenga alcuna specifica indicazione, oppure si sia in presenza di formule generali ed elastiche, da valorizzare di volta in volta in relazione ad ogni singolo caso, o comunque ogniqualvolta la causa di esclusione implichi un giudizio di gravità “post factum“, il vaglio giurisdizionale dovrà necessariamente estendersi anche a tale ultimo aspetto.
In tal caso dovrà valutarsi se il provvedimento adottato è proporzionale al comportamento dell’associato, tenendo conto, da un lato della lesione che questi ha arrecato agli interessi altrui e dall’altro agli effetti che il provvedimento produrrà sulla sua sfera di interessi, presumendone la volontà di permanere all’interno dell’associazione.
La pronuncia della Corte
Nel caso in esame la Corte osserva come lo statuto associativo, riprodotto peraltro nel corpo del ricorso, prevedesse un elenco di cause di esclusione sufficientemente specifiche, tali da costituire un idoneo parametro di valutazione degli addebiti indicati nella delibera di esclusione.
Malgrado ciò, e pur avendo dato atto delle condotte imputate all’associata nella delibera stessa (anche alla luce di una precedente nota richiamata per relationem), la Corte d’Appello ha riferito l’impossibilità di individuare esattamente i comportamenti posti alla base del provvedimento di esclusione, pronunciandone pertanto la nullità.
In realtà, osserva la Cassazione, le menzionate contestazioni, oltre ad avere un grado di specificità sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di difesa dell’associata, risultavano peraltro corrispondenti alle ipotesi di esclusione statutarie, dunque erano del tutto inidonee a fondare la declaratoria di nullità della delibera pronunciata dalla Corte d’Appello.
Alla luce di tali considerazioni la Corte ha quindi cassato la sentenza impugnata, rinviando ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania, anche per la regolazione delle spese.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 22986/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF

Volo soppresso: decide giudice italiano anche se c’è clausola su giurisdizione
In caso di soppressione del volo, qualora i trasportati agiscano per ottenere la compensazione pecuniaria, si applicano i criteri di collegamento indicati dall’art. 33 della Convenzione di Montréal, anche nell’ipotesi in cui il contratto concluso con la compagnia aerea contenga una clausola di proroga della giurisdizione.
Inoltre, nel caso di biglietti acquistati on line, il “luogo ove è sito lo stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto” – menzionato nella Convenzione – coincide con il domicilio degli acquirenti – nella fattispecie in Italia – in quanto luogo ove i ridetti siano venuti a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata tramite portale web.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con l’ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3561 (testo in calce).
La vicenda
Una coppia italiana evocava in giudizio la compagnia aerea, da cui aveva acquistato i biglietti, al fine di ottenere il rimborso (la compensazione pecuniaria) per la cancellazione del volo, oltre alla condanna al risarcimento del danno patrimoniale (acquisto di nuovi biglietti, pernottamento in albergo, vitto) e non patrimoniale. Il vettore eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla base di un’apposita clausola contenuta nelle condizioni generali di contratto, accettate dai trasportati, in sede di acquisto on line dei biglietti. Gli attori sollevano il regolamento preventivo di giurisdizione e la Suprema Corte, a Sezioni Unite come previsto dall’art. 41 c.p.c., stabilisce quale sia la disciplina applicabile – tra il Regolamento UE e la Convenzione di Montréal – oltre ad esaminare il contenuto delle condizioni generali di contratto, con particolare riguardo alla clausola di proroga della giurisdizione.
Il quadro normativo
Nel caso di specie vengono in rilievo i tre provvedimenti comunitari seguenti.
> Il Regolamento 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004 istituisce regole comuni in materia di compensazione e assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, cancellazione del volo o ritardo prolungato(abrogativo del Regolamento CEE 295/1991); il quale prevede indennità forfettarie e la possibilità di chiedere il risarcimento del danno. Tale regolamento non contiene norme sulla giurisdizione, ma solamente una “griglia minima di tutela” a favore dei viaggiatori.
> Il Regolamento UE 1215/2012, anche noto come Bruxelles 1 bis, sostitutivo del Regolamento CE 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; in particolare, vengono in rilievo:
- l’art. 25 sulla “proroga della competenza”
- l’art. 17 c. 3 ove è stabilito che «La presente sezione [ossia quella relativa ai contratti conclusi dai consumatori] non si applica ai contratti di trasporto che non prevedono prestazioni combinate di trasporto e di alloggio per un prezzo globale»;
- l’art. 71 c. 1 secondo cui «Il presente regolamento lascia impregiudicate le convenzioni, di cui gli Stati membri siano parti contraenti, che disciplinano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materie particolari».
> La Convenzione di Montréal del 28 maggio 1999, per l’unificazione di alcune norme sul trasporto aereo internazionale, approvata con decisione 2001/539/CE, in particolare:
- l’art. 19, rubricato “Ritardo”, dispone che «Il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci. Tuttavia, il vettore non è responsabile per i danni da ritardo se dimostri che egli stesso e i propri dipendenti e incaricati hanno adottato tutte le misure necessarie e possibili, secondo la normale diligenza, per evitare il danno oppure che era loro impossibile adottarle»;
- l’art. 33 c. 1, rubricato “Competenza giurisdizionale”, prevede che «L’azione per il risarcimento del danno è promossa, a scelta dell’attore, nel territorio di uno degli Stati parti, o davanti al tribunale del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto, o davanti al tribunale del luogo di destinazione»;
- l’art. 49 rubricato “Imperatività” stabilisce che «sono nulle tutte le clausolecontenute nel contratto di trasporto e tutti gli accordi speciali conclusi prima del verificarsi del danno con i quali le parti mirano ad eludere le disposizioni della presente convenzione sia determinando la legislazione applicabile sia modificando le norme sulla competenza giurisdizionale.»
Opera il Regolamento Bruxelles I bis o la Convezione?
Secondo la compagnia aerea, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice irlandese in virtù di un’apposita clausola, accettata dai trasportati, con l’apposizione del segno di spunta (point and click), al momento dell’acquisto del titolo di viaggio tramite portale web. La suddetta clausola opera solo nel caso di acquisto di biglietti e non già nell’ipotesi in cui il consumatore acquisti il pacchetto (volo e soggiorno). La clausola di proroga della giurisdizione è disciplinata dall’art. 25 del Regolamento 1215/2012, in cui si stabilisce che le parti, concordemente, possono convenire la competenza di una specifica autorità giurisdizionale, purché tale pattuizione avvenga per iscritto. Nel caso di specie, la clausola accettata dai trasportati prevedeva la giurisdizione del giudice irlandese, fatto salvo quanto previsto dalla Convenzione di Montréal.
Replicando a quanto sopra, i trasportati-ricorrenti precisano come l’art. 71 del Regolamento 1215/2012 (Bruxelles I bis) lasci impregiudicate le convenzioni tra gli Stati membri. Orbene, tra Italia e Irlanda sussiste la succitata Convenzione di Montréal in materia di traffico aereo. Tale accordo, quindi, prevale sulle disposizioni contrattuali eventualmente predisposte dal vettore, in forza della sua imperatività (art. 49). In altre parole, secondo i ricorrenti sulla clausola da loro sottoscritta prevalgono le disposizioni della Convenzione (art. 33) in quanto imperative (art. 49).
Da quanto sopra, si evince che la questione giuridica da dirimere riguarda l’ambito applicativo delle due diverse diposizioni: il Regolamento e la Convezione. Come vedremo, la Suprema Corte considera prevalente la disposizione convenzionale e radica la giurisdizione in Italia.
Di seguito analizziamo le ragioni della decisione.
Validità delle clausole accettate con il point and click
Le clausole generali di contratto accettate semplicemente flaggando (ossia mettendo il segno di spunta) alla relativa casella, nell’ambito di una procedura di acquisto on line, sono considerate valide, in linea generale, o meglio, è valida la modalità di accettazione delle stesse. In tal senso, si è espresso il giudice europeo (Corte di Giustizia, sent. 21 maggio 2015, C- 322/14, Cars on the web) e la giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. 21622/2017). Le suddette modalità di stipulazione dell’accordo di proroga della giurisdizione sono valide, purché siano redatte per iscritto. La forma scritta si ritiene integrata da “qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza” (art. 25 c. 2 Regolamento 1215/2012). Inoltre, la clausola di proroga della giurisdizione, contenuta in condizioni generali di contratto, disponibili mediante accesso ad un sito Internet, rispetta quanto detto, se consente di stampare e salvare il testo delle condizioni prima della conclusione del contratto.
L’interpretazione delle clausole di deroga della giurisdizione
La giurisprudenza di legittimità e quella comunitaria sono costanti nel ritenere che le clausole di deroga della giurisdizione, come quelle menzionate dall’art. 25 Reg. cit., debbano essere interpretate restrittivamente (Cass. 1311/2017). Orbene, come ricordato, la clausola in discorso fa salvo quanto diversamente previsto dalla Convenzione di Montréal, nel rispetto del disposto dell’art. 49 della Convenzione stessa, che dispone l’imperatività delle proprie norme e la nullità delle clausole contrastanti contenute nei contratti di trasporto.
Riassumendo:
- la clausola sottoscritta tra le parti (trasportati e vettore) contiene una deroga alla giurisdizione,
- la clausola fa salvo il contenuto della Convenzione di Montréal,
- è nulla qualsiasi clausola contrastante con le norme della Convenzione.
Tutto ciò premesso, è la Convenzione che regola la giurisdizione. Essa contiene dei criteri alternativi per radicare la competenza giurisdizionale, tra i quali la possibilità per l’attore di scegliere (art. 33)
- il tribunale del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto,
- il tribunale del luogo di destinazione.
Nel caso di specie, il volo sia in partenza che in arrivo si era svolto sul territorio nazionale, pertanto, la causa poteva correttamente radicarsi in Italia, in virtù dell’ultimo criterio di collegamento. Invero, la giurisdizione italiana è giustificata anche dal ricorso ad altro criterio quale “il luogo in cui il vettore possiede uno stabilimento per la conclusione del contratto”, come vedremo nei paragrafi successivi.
Ambito di operatività della Convenzione di Montréal
Secondo la compagnia aerea, la Convenzione si applica in caso di richiesta di risarcimento di danni da ritardo, ma non nella più grave ipotesi di cancellazione del volo, come quello che ci occupa. Pertanto, secondo la resistente, dovrebbe trovare applicazione il Regolamento 1215/2012, in particolare l’art. 25 dettato in tema di proroga della competenza. La Suprema Corte confuta tale ricostruzione, in quanto contraria alla lettera della norma e alla sua ratio. La Convenzione, tra gli altri ambiti (come morte e lesione dei passeggeri, danni ai bagagli, danni alla merce), si occupa di danno da ritardo, statuendo che «il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci […]» (art. 19). Dal dato letterale, emerge il riferimento al ritardo nel trasporto aereo (non già al “volo” stricto sensu inteso), con esso intendendo «la complessiva operazione di trasporto aereo dedotta in contratto fino alla sua destinazione finale». Pertanto, il ritardo a cui fa riferimento il citato art. 19, può riguardare il volo di andata, di ritorno, il protrarsi dello scalo fino a perdere la coincidenza, finanche la soppressione di uno dei due voli con necessità di sostituirlo con un altro.
Infatti, anche la soppressione del volo può costituire una causa di ritardo nel completamento dell’operazione di trasporto aereo. Dunque, non solo l’esegesi del testo consente di comprendere nell’alveo della Convenzione la soppressione del volo, ma anche la sua ratio. Infatti, l’articolo comprende le principali ipotesi di danni connesse al trasporto aereo, quindi, sarebbe incongruo escludere il caso più grave di inadempimento – ossia la soppressione del volo – e ricomprendervi quello più lieve, come il ritardo (Cass. S.U. 18257/2019; Cass. 1584/2018).
La Convenzione di Montréal prevale sul Regolamento Bruxelles I bis
La compagnia aerea ritiene che la giurisdizione debba individuarsi ai sensi degli artt. 25 e 17 del Reg. UE 1215/2012, considerandoli prevalenti sulla Convenzione. Invero, tale ricostruzione non può essere condivisa, in quanto è lo stesso Regolamento che, onde prevenire conflitti, prevede “che il presente regolamento non incida sulle convenzioni alle quali gli Stati membri aderiscono e che riguardano materie specifiche” (considerando 35); inoltre, l’art. 71 Reg. cit. prevede che “il presente regolamento lascia impregiudicate le convenzioni, di cui gli Stati membri siano parti contraenti, che disciplinano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materie particolari”.
Da quanto sopra emerge, la specialità della Convenzione, la quale si occupa segnatamente di unificare alcune norme, prima di tutto in materia di giurisdizione, relative al trasporto aereo; mentre il Regolamento in commento concerne in generale la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
Infine, per completezza, la Cassazione precisa come la giurisdizione del giudice italiano si fondi sull’art. 33 della Convenzione e non già con riferimento al foro del consumatore individuato dal Regolamento. Infatti, «il predetto regolamento non può essere applicato perché il paragrafo 3 stabilisce espressamente la sua esclusione nel caso di contratti di mero trasporto “che non prevedono prestazioni combinate di trasporto e di alloggio per un prezzo globale”, come nella specie, secondo la univoca prospettazione delle parti» (Cass. S.U. 18257/2019; Corte di Giustizia, sent. C-464/2018).
Conclusioni
In definitiva, secondo la Corte di Cassazione, nel caso di specie, la giurisdizione si radica in Italia:
- sia in applicazione del criterio di collegamento del luogo di destinazione del viaggio (in quanto si trattava di una tratta su territorio nazionale),
- sia in applicazione del criterio di collegamento del “luogo ove è sito lo stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto”.
In particolare, tale ultimo luogo coincide, nel caso di acquisto on line di biglietti per il trasporto aereo internazionale, con il domicilio degli acquirenti – quale luogo nel quale gli stessi siano venuti a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata con l’invio telematico dell’ordine e del pagamento del corrispettivo (così Cass. 18257/2019).
Pertanto, i giudici di legittimità concludono il loro percorso argomentativo affermando che:
«ai fini della individuazione del giudice avente giurisdizione a conoscere della controversia avente ad oggetto la compensazione pecuniaria per il ritardo nello svolgimento delle operazioni di trasporto aereo, subito da acquirenti domiciliati in Italia, anche se il contratto concluso con la compagnia aerea contenga una clausola di proroga della giurisdizione, si applicano quindi i criteri di collegamento indicati dall’art. 33 della Convenzione di Montréal».
CASSAZIONE, SS.UU. CIVILI, ORDINANZA N.3561/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
continua
Prodotto difettoso: se la sostituzione è onerosa scatta il risarcimento
In materia di vendita di beni di consumo, se il prodotto è affetto da vizi e non risulta possibile la riparazione o sostituzione, il consumatore ha diritto di agire per il risarcimento del danno.
È pur vero che il Codice del Consumo (art. 130) non prevede espressamente tale facoltà, nondimeno fa salvi i diritti attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento (art. 135 c. 2).
Del resto, la direttiva comunitaria (44/1999) ha inteso rafforzare la tutela del soggetto debole e non certo diminuirla, pertanto, il consumatore conserva il diritto di agire per il ristoro del pregiudizio subito, consistente nella somma necessaria all’eliminazione dei vizi.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza del 20 gennaio 2020, n. 1082(testo in calce)
Sommario
- La vicenda
- Riferimenti normativi in materia di prodotti difettosi
- Prodotto difettoso: eliminazione vizi e risarcimento danno
- Tutela del consumatore in base ad altre disposizioni
- Il consumatore ha diritto al risarcimento del danno
- Conclusioni
La vicenda
Il proprietario di un immobile evocava in giudizio il titolare di una ditta individuale per avergli venduto una partita difettosa di “perline” in legno di larice. L’acquirente aveva posizionato le suddette perline nell’orditura del tetto e si era verificato un anomalo restringimento per la perdita di umidità, dopo la messa in posa. L’attore[1] chiedeva la condanna all’eliminazione dei vizi riscontrati in sede di ATP (accertamento tecnico preventivo) e, in via subordinata, il risarcimento dei danni patiti a causa dei vizi del materiale, consistenti nelle spese per il rispristino del tetto. Il venditore si opponeva e chiamava in giudizio il produttore del materiale, il quale, a sua volta, contestava la sussistenza dei vizi. Il tribunale rigettava la domanda principale, consistente nella richiesta di eliminazione dei vizi, in quanto troppo onerosa per il venditore, mentre accoglieva la richiesta risarcitoria, seguendo la quantificazione effettuata dal CTU: inoltre, accoglieva la domanda di garanzia del venditore verso il produttore. L’appello proposto dai soccombenti in primo grado veniva accolto e, in sede di gravame, il giudice riteneva che la domanda di eliminazione dei vizi – rigettata in primo grado – non fosse stata oggetto di impugnazione e, quindi, si fosse formato un giudicato interno sull’eccessiva onerosità del ripristino. Il danno lamentato, secondo il giudicante, era meramente estetico e non poteva consistere nella riparazione del tetto, ma solo nell’eliminazione delle fessure; inoltre, l’attore non aveva formulato una richiesta risarcitoria in tal senso (ma solo quella relativa al ripristino del tetto) e, quindi, l’appellato-soccombente veniva condannato al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Si giunge così in Cassazione, ove i giudici di legittimità chiariscono che l’applicazione del Codice del Consumo non esclude l’operatività delle regole generali dettate dal Codice civile.
Prima di analizzare il decisum, ricordiamo brevemente le norme che vengono in rilievo.
Riferimenti normativi in materia di prodotti difettosi
La vendita di prodotti di consumo è attualmente disciplinata dal Codice del Consumo (D.Lgs. 206/2005), in cui è confluito il d.lgs. 24/2002, attuativo della direttiva 44/1999, che aveva novellato il Codice civile inserendo gli artt. 1519 da bis a novies. La novellata disciplina si applica ai contratti di compravendita ove
- l’acquirente rivesta la qualità di consumatore,
- l’oggetto siano beni di consumo, ossia qualsiasi bene mobile, anche da assemblare, tranne le utilities come acqua, gas, energia elettrica (art. 128 d.lgs. 206/2005).
Il bene deve essere esente da vizi e si ritiene conforme qualora sia idoneo all’uso al quale è destinato o a quello che intende farne l’acquirente o corrisponde alla descrizione fatta dal venditore (art. 129 d.lgs. 206/2005).
In caso di difetti di conformità opera la garanzia a favore del compratore. Nel caso in esame, vengono in rilievo due disposizioni specifiche.
– Art. 130 rubricato “diritti del consumatore” ove è stabilito che, in caso di prodotto difettoso, il consumatore abbia diritto, in alternativa, alla:
- riparazione del bene,
- sostituzione del prodotto,
- riduzione del prezzo (azione estimatoria o quanti minoris),
- risoluzione del contratto (azione redibitoria).
Si ricorda che il venditore non è tenuto a compiere i primi due interventi (riparazione e sostituzione) qualora siano eccessivamente onerosi (come accaduto nella fattispecie in commento).
– Art. 135 rubricato “tutela in base ad altre disposizioni” ove secondo comma si dispone che, per quanto non previsto dal presente titolo, si applicano le disposizioni del Codice civile in tema di contratto di vendita.
Prodotto difettoso: eliminazione vizi e risarcimento danno
Il ricorrente censura la ricostruzione operata dal giudice del gravame, laddove prevedeva che il compratore non avesse diritto al risarcimento del danno per la sostituzione di tutte le perline (danno emergente), ma solo al ristoro per il danno estetico conseguente al loro restringimento. Il presupposto di tale ragionamento si rinviene nel fatto che l’eliminazione dei vizi fosse troppo onerosa per il venditore. In tal modo opinando, si nega al compratore il risarcimento per la perdita subita (danno emergente) in base alle regole generali dettate dal Codice civile. Come abbiamo visto, l’art. 135 d. lgs. 206/2005 ammette che il consumatore possa ricorre ai rimedi ordinari, che concorrono con quelli apprestati dalla disciplina consumeristica. Infatti, la ratio della normativa comunitaria – confluita nel d.lgs. 206/2005 – consiste nell’aumentare la tutela del consumatore e non nel diminuirla.
Tutela del consumatore in base ad altre disposizioni
Nella compravendita, è diritto del compratore esercitare l’azione di risarcimento danni, anche indipendentemente dalla richiesta di riduzione del prezzo o risoluzione del contratto (art. 1494 c.c.). Ne consegue che al consumatore non debba essere negata una pari facoltà, a maggior ragione nel caso in cui non siano esperibili i rimedi come la sostituzione o riparazione del bene, in quanto troppo onerosi (art. 130 c. 7 d.lgs. 206/2005). L’art. 135, posto a chiusura della disciplina sulla conformità dei prodotti, nel rinviare agli altri diritti attribuiti al consumatore dall’ordinamento, ha inteso garantire all’acquirente uno standard di protezione più pregnante rispetto a quello offerto dalla direttiva 44/1999 (in materia di “vendita e delle garanzie dei beni di consumo”).
Il consumatore ha diritto al risarcimento del danno
Nel caso in esame, il consumatore aveva chiesto – in via principale – la sostituzione delle perline difettose; nondimeno, la suddetta sostituzione era stata negata per l’eccessiva onerosità. Tale accertamento non preclude al consumatore il diritto di chiedere il risarcimento del danno consistente nella somma necessaria ad eliminare i vizi, vale a dire per lo smantellamento del tetto. Come abbiamo visto, l’art. 130 d.lgs. 206/2005 non contempla il risarcimento del danno tra i rimedi esperibili dal consumatore, consistenti nella sostituzione o riparazione del bene, nella riduzione del prezzo o nella risoluzione del contratto. La mancata menzione di tale diritto non esclude che il consumatore possa farvi ricorso, anche in virtù del richiamo alle altre norme dell’ordinamento operato dall’art. 135. Del resto, il ristoro del danno ha lo scopo di porre il consumatore nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato se il prodotto fosse stato immune da vizi. Per la giurisprudenza, «la circostanza che un determinato prodotto si riveli inidoneo ad essere adoperato secondo le modalità indicate dal venditore e possa esserlo solo con modalità più dispendiose (per tempi di lavorazione e quantità da impiegare) ben può esser valutata dal giudice di merito ai fini del risarcimento del danno, oltreché sotto l’aspetto della riduzione del prezzo, poiché quest’ultima ristabilisce l’equilibrio patrimoniale solo con riguardo al valore della cosa venduta, ma non elimina il danno determinato dal venditore, consistente nel costo delle maggiori quantità di prodotto utilizzato e di manodopera impiegata» (Cass. 1153/1995, Cass. n. 4161/2015 in materia di appalto).
Conclusioni
Nella fattispecie oggetto di scrutinio, era stato riconosciuto il vizio del prodotto e non era risultata possibile né la sostituzione né la riparazione per eccessiva onerosità. Secondo il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità, la richiesta risarcitoria non rimane circoscritta nei limiti del danno non coperto dalla sostituzione (troppo onerosa), ma si applicano i criteri ordinari previsti in caso di domanda risarcitoria proposta in assenza di richiesta di risoluzione o riduzione del prezzo. Per questa ragione, il giudice del gravame ha errato ad interpretare i rimedi accordati dal codice del consumo fino a negare al consumatore qualsiasi risarcimento, pure in presenza di un riscontro oggettivo dei vizi. Inoltre, in tema di responsabilità civile, «la domanda con la quale un soggetto chieda il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, senza ulteriori specificazioni, si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta» (Cass. 20643/2016). Per tutte le ragioni sopraesposte, i giudici di legittimità cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello, che dovrà attenersi ai principi indicati in tema di risarcimento del danno.
CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 1082/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
continua
Insidie: proprietario della strada deve vigilare anche su terreni adiacenti di privati
Il proprietario della strada deve vigilare anche su terreni adiacenti di privati. Non devono sorgere situazioni di pericolo per gli utenti della strada e, ove si verifichino, deve attivarsi per rimuoverle o farle rimuovere.
Questo è quanto ha stabilito la Corte di cassazione, sez. III civile, con l’ordinanza 9 marzo 2020, n. 6651 (testo in calce).
Sommario
Il fatto
Un albero situato in un canale di scolo prospiciente la strada, a seguito di una tempesta di vento, era caduto sulla strada stessa trasversalmente impedendo il passaggio di una vettura e causando la collisione con la stessa, danneggiandola. Si discute se le fasce di rispetto, previste dagli artt. 16 lett. c), 14 lett. a) e b) del codice della strada e 26 del regolamento di attuazione del codice della strada, rientrino nella competenza dell’ente proprietario della strada, in punto di dovere di vigilanza e persino di manutenzione (su beni non demaniali).
La decisione
La pronuncia vira decisamente da un precedente orientamento consolidato, quanto superato dal 2008, secondo il quale il custode rispondesse per colpa ex art. 2043 cc, anzichè ex art. 2051 cc, con la conseguenza inevitabile (ed è questo il punto di maggior rilievo, sebbene scontato) dello spostamento dell’onere della prova in capo al danneggiato che avrebbe dovuto dimostrare i caratteri della invisibilità o della imprevedibilità dell’insidia, come unico argomento utile ad atteggiare la responsabilità del custode. Questo orientamento è ormai stato ampiamente superato dal 2008, momento dal quale la responsabilità del custode sarà di carattere oggettivo.
La Cassazione incide ulteriormente su questo cambio di rotta, affermando, nella fattispecie in esame (tempesta) che il danneggiato che agisca per il risarcimento dei danni subiti mentre circola sulla pubblica via è tenuto alla dimostrazione dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, ma non anche dell’imprevedibilità e non evitabilità dell’insidia o del trabocchetto, né della condotta omissiva o commissiva del custode, gravando su quest’ultimo, in ragione dell’inversione dell’onere probatorio che caratterizza la peculiare fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale potesse presentare, per l’utente, una situazione di pericolo occulto, nel cui ambito rientra anche la valutazione della sua prevedibilità e visibilità rispetto alle concrete condizioni in cui l’evento si verifica (cfr. Cass. 11802/2016).
Il Supremo Collegio aveva altresì confermato questa inversione dell’onere della prova, affermando che la responsabilità della pubblica amministrazione di cui all’art. 2051 c.c. opera anche in relazione alle strade pubbliche, con riguardo, tuttavia, alla causa concreta del danno, rimanendo i soggetti che ne hanno la custodia liberati dalla responsabilità suddetta solo ove dimostrino che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione che imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode (cfr. Cass. 16295/2019).
Dettato il suddetto onere della prova in capo al custode, la Suprema Corte gli attribuisce un ulteriore obbligo: in tema di circolazione stradale è dovere primario dell’ente proprietario della strada garantirne la sicurezza mediante l’adozione delle opere e dei provvedimenti necessari; ne consegue che sussiste la responsabilità di detto ente in relazione agli eventi lesivi occorsi ai fruitori del tratto stradale da controllare, anche nei casi in cui l’evento lesivo trova origine nella cattiva o omessa manutenzione dei terreni laterali alla strada, ancorché appartenenti a privati, atteso che è comunque obbligo dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza (principio già affermato in Cass. 23562/2011 e Cass. 15302/2013); infatti, sostiene la Cassazione, l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, benché non abbia la custodia dei fondi privati che la fiancheggiano e, quindi, non sia tenuto alla loro manutenzione, ha l’obbligo di vigilare affinché dagli stessi non sorgano situazioni di pericolo per gli utenti della strada, nonché – ove, invece, esse si verifichino – quello di attivarsi per rimuoverle o farle rimuovere, sicché è in colpa, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1176, secondo comma, cod. civ. e 2043 cod. civ. (n.d.r.: si badi, ex art. 2043 e neppure ex art. 2051 cc.), qualora, pur potendosi avvedere con l’ordinaria diligenza della situazione di pericolo, non l’abbia innanzitutto segnalata ai proprietari del fondo, né abbia adottato altri provvedimenti cautelativi, ivi compresa la chiusura della strada alla circolazione” (cfr. Cass 22330/2014; Cass. 6141/2018).
Si rilevi l’impercettibile passaggio, quanto significativo, dell’onere di vigilanza del custode, il quale risponde per responsabilità persino diretta, ex art. 2043 c.c. e neppure presunta e di carattere oggettivo, ex art. 2051 cc.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 6651/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2020/04/02/insidie-proprietario-della-strada-deve-vigilare-anche-su-terreni-adiacenti-di-privati
continua
Ius variandi solo per giustificato motivo: anche nella telefonia
Con la sentenza 2 marzo 2020, n. 1529 (testo in calce), il Consiglio di Stato si è occupato della legittimità della disposizione contenuta nel regolamento adottato dall’AGCom «Recante disposizioni a tutela degli utenti in materia di contratti relativi alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche».
La normativa
In particolare, tale regolamento, all’art. 6, dispone che gli operatori di telefonia mobile possono modificare «le condizioni contrattuali solo nelle ipotesi e nei limiti previsti dalla legge o dal contratto medesimo».
Tale previsione era stata ritenuta illegittima dal Giudice di prime cure, ma l’appello interposto dall’Autorità Garante ha consentito al Consiglio di Stato di affrontare la questione, giungendo ad un esito opposto.
In particolare, l’appellante sosteneva che la sentenza impugnata fosse erronea laddove essa ha ritenuto che il potere regolamentare esercitato fosse privo di base legale, non esistendo norme che pongono limiti al diritto di modifica unilaterale dei contratti nel settore delle comunicazioni elettroniche.
In contrario, l’appellante sosteneva l’applicabilità del Codice del consumo alla fattispecie in questione: il quale condiziona l’esercizio dello ius variandi all’esistenza di un «giustificato motivo».
La decisione
Il Consiglio di Stato, nell’accogliere il ricorso (e dunque confermare la validità del regolamento di AGCom) ha innanzitutto evidenziato come lo ius variandi costituisca un diritto potestativo, riconosciuto ad una parte, dalla legge o dal contratto, di modificare o specificare unilateralmente il contenuto del contratto, e che nell’ambito dei contratti di diritto comune – caratterizzati dalla presenza di parti che si pongono in posizione di tendenziale eguaglianza – esistono alcune norme che contemplano fattispecie riconducibili a tale istituto.
Riguardo alla legittimità di una clausola negoziale che attribuisca ad una sola delle parti il potere di modificare il rapporto negoziale, la pronuncia ricorda che vi sono due orientamenti: un primo orientamento, minoritario, esclude che tale potere possa essere esercitato in mancanza di una norma generale che ne autorizzi l’esercizio ; un secondo orientamento, prevalente e preferibile, ritiene che tale potere sia configurabile in quanto, in mancanza di espressi divieti legali, rientra nell’autonomia negoziale delle parti contemplare clausole che consentano ad una di essa di modificare in via unilaterale il contenuto del contratto.
Invece, nell’ambito dei contratti con le parti deboli, caratterizzati da una situazione di squilibrio informativo ed, in alcuni casi, economico, tra le parti, il legislatore europeo e nazionale, proprio in ragione della particolare natura della clausola in esame, ha ritenuto necessario disciplinare il potere di modificazione unilaterale sottoponendo il suo esercizio a limiti legali mediante la previsione di specifiche norme imperative che costituiscono una proiezione applicativa dello stesso principio di buona fede. Ed è questo il caso dei contratti di consumo, il legislatore nazionale ha previsto un chiaro limite legale all’esercizio del potere di ius variandi, costituito dal potere di recesso riconosciuto all’utente.
Ciò premesso, il Collegio ha evidenziato come anche in assenza di tale puntuale prescrizione, un limite legale sia desumibile dal principio generale di buona fede nella fase di esecuzione del contratto, che impedisce alla parte forte di incidere in via unilaterale sul contenuto del contratto con modalità esecutive contrastanti con le regole di correttezza.
Sulla base di questi presupposto il Consiglio di Stato ha quindi chiarito che “l’operatore di telefonia mobile, nella fase di esercizio del diritto potestativo di modificazione del rapporto contrattuale, è obbligato ad indicare le ragioni oggettive, connesse, normalmente, alla gestione di sopravvenienze rilevanti, che giustificano in modo oggettivo lo ius variandi.”
CONSIGLIO DI STATO, SENTENZA N. 1529/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
Per inciso, va notato che la pronuncia in esame richiama anche in precedente del Consiglio di Stato che, con diverso percorso argomentativo, giungeva ad analoga soluzione: Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8024).
fonte. https://www.altalex.com/documents/news/2020/03/26/ius-variandi-solo-per-giustificato-motivo-anche-nella-telefonia
continua
Ascensore condominiale malfunzionante, occorre risarcire i danni ai terzi
Il condominio è tenuto a risarcire al terzo i danni che questo ha subito a causa di un malfunzionamento dell’ascensore condominiale.
Può tuttavia rivalersi nei confronti della ditta cui era affidata la manutenzione se il sinistro è imputabile ad un malfunzionamento preesistente, già noto alla ditta e che questa non ha provveduto ad eliminare.
Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. 3 civile, con l’ordinanza 13 giugno-29 novembre 2019, n. 31215 (testo in calce).
L’analisi dei motivi di ricorso ha consentito alla Corte di ribadire anche che, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito ha piena autonomia nell’apprezzare il quadro probatorio acquisito.
I fatti di causa
La pronuncia trae origine da un incidente verificatosi in un ascensore condominiale, che a seguito di un malfunzionamento accelerava in maniera brusca ed improvvisa portando all’infortunio di una donna.
Quest’ultima otteneva il ristoro dei danni subiti dal condominio, che agiva a sua volta nei confronti della ditta incaricata della manutenzione dell’ascensore, chiedendo il rimborso di quanto versato alla danneggiata.
A detta del condominio il malfunzionamento si era già manifestato prima del sinistro e malgrado la ditta ne fosse consapevole non aveva mai provveduto a porvi rimedio, rendendosi con ciò responsabile di quanto accaduto.
Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello di Napoli confermavano la condanna in manleva della ditta.
In particolare i giudici d’appello accertavano che l’incidente era stato provocato dal cattivo funzionamento del selettore di manovra, dovuto alla rottura dei nottolini posti sulla fune e che il malfunzionamento si era appunto già manifestato prima del sinistro.
In conseguenza di ciò la ditta era quindi responsabile, non tanto per l’omissione degli interventi manutentivi previsti dal contratto e richiesti dal condominio, quanto per non aver promosso la necessaria sostituzione di un componente che aveva già rilevato essere difettoso.
La soccombente proponeva ricorso per cassazione, cui resistevano il condominio ed il terzo danneggiato con distinti controricorsi.
Il ricorso per cassazione: i motivi
La ditta lamentava un’erronea valutazione delle risultanze istruttorie da parte del giudice di merito, in particolare di quelle conseguenti all’accertamento tecnico preventivo espletato ante causam, da cui non sarebbe emerso alcun difetto di manutenzione dell’ascensore ma solo l’opportunità di sostituire il selettore di manovra (risalente agli anni ’70) con un altro di tipo diverso.
La Corte d’Appello avrebbe quindi errato nell’ascrivere la responsabilità del sinistro anche alla ditta, posto che, secondo quest’ultima, la modifica e l’aggiornamento dell’impianto erano scelte riservate alla sola proprietà dell’immobile.
Risultanze istruttorie e libero convincimento del giudice
Gli Ermellini escludono che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito integri un vizio denunciabile con il ricorso per cassazione.
Nello specifico la Corte non ritiene censurabile il fatto che il collegio abbia attribuito un significato diverso alle risultanze fattuali dell’ATP.
L’accertamento tecnico preventivo non contiene infatti valutazioni tecniche sulle cause dei danni ma serve unicamente a “fotografare” una situazione di fatto, a beneficio del giudice e delle parti, fornendo elementi che altrimenti sarebbero destinati a sparire o a modificarsi se non acquisiti in quella sede.
Il giudice di merito può quindi apprezzare gli elementi presi in esame dal consulente tecnico e le considerazioni da questi espresse, se li ritiene utili ai fini della decisione, non essendovi tuttavia vincolato in alcun modo in virtù del principio del libero convincimento.
La ricostruzione fattuale offerta dal consulente rappresenta quindi la base di valutazione del giudice, che tuttavia potrà attribuire ai fatti una diversa considerazione alla stregua delle norme che riterrà di volta in volta applicabili al caso concreto.
Nella fattispecie in esame la Corte d’Appello ha ritenuto che tra gli obblighi del manutentore vi fosse non solo quello di intervenire ogni volta che l’ascensore presentava un inconveniente, ma anche quello di (quanto meno) segnalare alla proprietà l’eventuale sostituzione di componenti obsoleti, causa, come tali, di possibili e generici malfunzionamenti ma anche di danni ai trasportati.
Una conclusione che, proprio perché basata sulle risultanze dell’ATP, logicamente argomentata e frutto del libero convincimento del giudice, non è sindacabile in sede di legittimità.
Conclusioni
La Corte ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio nonchè di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 31215/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
continua
Troppo tempo su Facebook? Ok al licenziamento
Quanto alle regole sulla privacy, secondo gli Ermellini, non risulta che tale specifica questione sia stata sollevata nel corso dei gradi di merito, valendo il principio per cui «qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto. La carenza della predetta indicazione impone di considerare la questione come nuova, sicchè non può ammettersi il suo ingresso in sede di legittimità».
Quanto, invece, all’idoneità probatoria della cronologia, secondo la Corte ogni questione attiene alla formazione del convincimento del giudice del merito, il quale ha sul punto ampiamente motivato, valorizzando non solo la mancata contestazione da parte della ex dipendente, ma anche il fatto che gli accessi alla pagina personale Facebook richiedono una password, con la conseguenza che non devono nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente.
Valutazioni, continua la Corte, rispetto alle quali la censura si traduce in una richiesta di diversa valutazione della prova (e quindi del merito) che non può avere ingresso, a fronte di una motivazione non implausibile da parte della Corte d’Appello, in sede di legittimità.
Sotto altro profilo, la Cassazione si sofferma su alcuni aspetti relativi al processo telematico: il (datore di lavoro) controricorrente aveva, infatti, sostenuto l’inesistenza e/o nullità della notifica del ricorso e della relata, per violazione dell’art. 19 bis del provvedimento 16.4.2014 (specifiche tecniche di cui al D.M. n. 44 del 2011, artt. 18 e 34), per aver la ricorrente effettuato la notifica di atti in formato non consentito (doc/docx e non pdf).
Secondo la Corte trattasi di rilievo infondato, in quanto la consegna telematica di un atto in “estensione.doc”, anzichè in “formato.pdf”, che abbia comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale della notificazione, nonostante la violazione della normativa inerente il processo telematico, esclude il verificarsi di qualsivoglia nullità.
Analoghe considerazioni, secondo gli Ermellini, valgono rispetto all’eccepita inesistenza o nullità della notifica del ricorso e della relata, asseritamente derivanti dal fatto che, nei documenti notificati in formato doc e docx, vi sarebbero “macroistruzioni, codici eseguibili ed elementi attivi” che potrebbero consentire la modificazione di atti, fatti o dati in essi rappresentati.
Il ricorso per cassazione, come anche la relata, sono infatti destinati ad essere depositati, in copia analogica; pertanto ciò rileva è se, in concreto, tra quanto notificato in via telematica e quanto risultante agli atti del giudizio di cassazione vi siano difformità. Ma, non avendo la controricorrente fatto alcuna menzione di ciò, l’irregolarità (se in ipotesi sussistente) è da ritenere sia stata del tutto innocua, non essendo state in concreto apportate modificazioni agli atti notificati in via telematica.
(Altalex, 26 febbraio 2019. Nota di Ranieri Romani)
continua