
Condannato al risarcimento del danno l’avvocato che dichiara di non voler assumere gay
e dichiarazioni rese da un noto avvocato che, nel corso di una trasmissione radiofonica, affermi di non voler assumere, nel proprio studio, persone omosessuali, hanno contenuto discriminatorio. Infatti, affermazioni siffatte contengono “espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature […], così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l’accesso al lavoro”. In circostanze simili, sono legittimate ad agire in giudizio, anche per ottenere il risarcimento del danno, le associazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso. Non solo quando esse agiscono a tutela di discriminazioni perpetrate a danno di soggetti individuabili, ma anche in presenza di discriminazioni collettive. La circostanza che l’ente sia composto solo da avvocati e abbia scopo di lucro non esclude, ex se, la rappresentatività. Essa deve essere verificata dal giudice del merito sulla base dell’esame dello statuto dell’associazione: si tratta di un accertamento fattuale che è insindacabile in sede di legittimità.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 15 dicembre 2020 n. 28646 (testo in calce).
La vicenda
Un noto avvocato, nel corso di una trasmissione radiofonica, affermava che, nel suo studio, non avrebbe mai assunto persone omosessuali. Un’associazione di avvocati, volta alla tutela dei diritti dei gay, delle lesbiche, dei transgender e degli intrasessuali, conveniva in giudizio il legale, al fine di ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio delle sue dichiarazioni. Il Tribunale accoglieva la doglianza e condannava l’avvocato al pagamento di 10 mila euro a titolo di risarcimento, oltre alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano nazionale. Il convenuto soccombente interponeva appello e, tra le altre doglianze, eccepiva il difetto di legittimazione dell’associazione, sia sostanziale che processuale. Inoltre, si doleva del fatto che il Tribunale avesse rigettato l’eccezione di nullità del ricorso per la mancata menzione dell’avvertimento ex art. 163 c. n. 7 c.p.c. Infine, sollevava una questione di legittimità costituzionale del d.lgs. 216/2003 (articoli 2, lettere a) b) e 3 lettera a) per violazione dell’art. 21 Cost. sulla libera manifestazione del pensiero. La Corte d’appello respingeva in toto l’impugnazione. Si giunge così in Cassazione.
Riferimenti normativi
Prima di analizzare la decisione, ricordiamo brevemente le norme che vengono in rilievo.
D.lgs. 216/2003 attuativo della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In particolare, l’art. 2 lettere a) e b) dispone che:
- si ha discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
- si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
L’art. 5, rubricato “legittimazione ad agire”, prevede che:
- le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio. Inoltre, sono legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva anche qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.
Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In particolare, l’art. 9, rubricato “difesa dei diritti”, dispone che:
- gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.
Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
La Corte di Cassazione opera un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sollevando due quesiti:
- se la corretta interpretazione della direttiva (art. 9) ammetta che un’associazione, composta da avvocati specializzati – come quella che ha agito nel caso di specie – nel cui statuto dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, sia portatrice di un interesse collettivo e sia legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria;
- se possa applicarsi la tutela antidiscriminatoria anche contro una dichiarazione resa durante un’intervista radiofonica, ove l’intervistato abbia dichiarato che non assumerebbe mai persone omosessuali, benché non fosse programmata alcuna assunzione.
La decisione della Corte UE
Secondo il giudice europeo:
- la direttiva non osta ad una disciplina nazionale che attribuisca la legittimazione ad agire ad un’associazione di avvocati il cui statuto preveda, come finalità, la difesa di persone aventi un determinato orientamento sessuale, indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro;
- la direttiva si applica anche alle dichiarazioni radiofoniche come quelle in oggetto, sebbene non fosse in corso alcuna assunzione, purché “il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico”.
La legittimazione ad agire
Il ricorrente sostiene che l’associazione, composta solo da avvocati, non sia legittimata ad agire; l’ente, infatti, non appare rappresentativo della categoria lesa essendo formato solo da legali. Tale doglianza viene rigettata. L’associazione de qua rileva come, negli anni, si sia occupata della sensibilizzazione sul tema dei diritti delle persone omosessuali, abbia pubblicato diversi testi in materia e abbia “ottenuto” una pronuncia della Consulta (138/2010) e della Cassazione (4184/2012) sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, secondo il diritto unionale, spetta alla legislazione interna dello Stato membro disciplinare le condizioni in base alle quali un’associazione possa avviare un’azione tesa a far sanzionare la condotta discriminatoria. La questione, quindi, si sposta sul diritto nazionale. Ebbene, l’art. 5 c. 2 d. lgs. 216/2003 ammette che le associazioni rappresentative possano agire in giudizio anche allorché le persone lese dalla discriminazione non siano individuabili. Il criterio scelto dal legislatore per attribuire la legittimazione alle associazioni e alle organizzazioni è quello della rappresentatività dell’interesse leso, senza richiedere che i soci e aderenti ne siano personalmente titolari. Quindi, è irrilevante che l’associazione sia composta solo da avvocati e non da soggetti portatori dell’interesse, giacché ciò che rileva è la finalità statutaria, consistente nel difendere in giudizio le persone aventi un determinato orientamento sessuale.
L’ente esponenziale e lo scopo di lucro
Il ricorrente ritiene che l’associazione esponenziale del diritto leso non possa avere scopo di lucro. Anche tale doglianza viene rigettata, sia perché l’ente in discorso non persegue lo scopo di lucro sia perché è irrilevante, atteso che gli Stati membri possono attribuire la legittimazione attiva alle associazioni rappresentative indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro. La legge italiana (art. 5 d. lgs. 216/2003) non postula l’assenza dello scopo di lucro.
La rappresentanza ex lege
Il legislatore ha riconosciuto alle associazioni la rappresentanza ex lege per conto di una collettività indeterminata, in presenza di due presupposti:
- l’impossibilità di individuare il soggetto o i soggetti singolarmente discriminati;
- la rappresentatività dell’associazione rispetto all’interesse collettivo in questione.
Il primo requisito postula che la discriminazione, relativa alla violazione della parità di trattamento sul lavoro, abbia colpito una categoria indeterminata di soggetti (nel caso in esame, gli omosessuali).
Il secondo requisito va verificato sulla base dell’esame dello statuto associativo, «il quale dovrà univocamente contemplare la tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, che di esso si ponga quale esponenziale: deve, dunque, trattarsi di un interesse proprio dell’associazione, posto in connessione immediata con il fine statutario, cosicché la produzione degli effetti del comportamento controverso si risolva in una lesione diretta dello scopo istituzionale dell’ente, il quale contempli e persegua un fine ed un interesse, assunti nello statuto a ragione stessa della sua esistenza e azione».
La sussistenza di tali requisiti è rimessa al giudice di merito, mancando la previsione normativa di un controllo pubblico preventivo, e non è sindacabile in sede di legittimità.
La libera manifestazione del pensiero e la discriminazione
L’avvocato si difende affermando che le proprie dichiarazioni siano state rese come cittadino e che non riguardavano una politica di assunzione. Egli si era limitato a manifestare liberamente il proprio pensiero come concesso dalla Costituzione (art. 21). Anche tale doglianza viene rigettata.
Il quadro normativo, interno ed europeo, prevede che l’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria riguardi l’instaurazione, l’esecuzione o la conclusione di un rapporto di lavoro. Il fatto che nessuna trattativa, ai fini di un’assunzione, fosse in corso quando le dichiarazioni discriminatorie sono state rese, non esclude che tali dichiarazioni rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva. Infatti, le affermazioni fatte nell’intervista radiofonica contenevano “espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature allo studio professionale del ricorrente, così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l’accesso al lavoro”. Inoltre, nel caso di specie, l’avvocato, titolare di uno studio, era potenzialmente un datore di lavoro, pertanto, le sue dichiarazioni discriminatorie rientrano nella disciplina in oggetto. Quanto alla libera manifestazione del pensiero, si tratta di un diritto non assoluto che, infatti, non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati, come il diritto alla parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro.
La mancata menzione dell’avvertimento ex art. 163 n. 7 c.p.c.
Tra i motivi di doglianza, il ricorre lamenta che nel ricorso introduttivo mancasse l’avvertimento di cui all’art. 163 n. 7 c.p.c. Anche tale censura viene rigettata, infatti, l’avvocato, pur eccependo la nullità dell’atto introduttivo, si era difeso nel merito. Nel caso di vizi della vocatio in ius l’art. 164 c. 3 c.p.c. esclude che la nullità della citazione sia sanata dalla costituzione del convenuto, se egli eccepisca tali nullità. Nondimeno, la norma presuppone che il convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della nullità, senza anche svolgere difese e richiedere la fissazione di una nuova udienza. Infatti, un simile contegno integra la sanatoria della nullità della citazione (Cass. 21910/2014). Pertanto, se il convenuto, nel costituirsi, svolge le sue difese, viene meno il presupposto per l’applicazione della norma. Il legislatore non ha richiesto un’istanza del convenuto in aggiunta all’eccezione ed ha inteso ricollegare il dovere di fissazione di nuova udienza a una costituzione finalizzata alla sola formulazione dell’eccezione. Viceversa, se il convenuto svolge le sue difese, la fissazione dell’udienza avrebbe luogo pur in presenza di una difesa completamente articolata e sarebbe priva di scopo.
Riassumendo, in assenza dell’avvertimento ex art. 163 n. 7, il convenuto può:
- costituirsi e sanare la nullità,
- non costituirsi e lasciare che il giudice la rilevi,
- costituirsi e limitarsi ad eccepire tale nullità.
Non esiste la quarta possibilità, ossia costituirsi, eccepire la nullità e svolgere le proprie difese. A tal proposito la Corte enuncia il seguente principio:
- “in tema di nullità della citazione per vizi relativi alla vocatio in ius, quali l’inosservanza del termine di comparizione e l’omissione dell’avvertimento prescritto dall’art. 163 c.p.c., n. 7, l’art. 164 c.p.c., comma 3, laddove esclude che la nullità della citazione sia sanata dalla costituzione del convenuto, che eccepisca tali nullità – con l’effetto della necessità della fissazione di nuova udienza nel rispetto dei termini -, presuppone che il convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della nullità, senza svolgere le proprie difese nel merito.”.
I principi di diritto
In conclusione, il ricorso del noto avvocato viene rigettato e la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
- “in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 5, comma 2, come modificato dal D.L. 8 aprile 2008, n. 59, art. 8-septies convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2008, n. 101, costituisce esplicazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri dall’art. 8 della direttiva 2000/78 di concedere una tutela più incisiva di diritto nazionale rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo, attribuendo – nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa – la legittimazione attiva ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno a un’associazione che sia rappresentativa del diritto o dell’interesse leso”;
- “il requisito della rappresentatività dell’ente, per il quale non è stabilito alcun controllo preventivo, deve essere verificato dal giudice del merito sulla base dell’esame del suo statuto, che deve contemplare la previsione univoca del perseguimento della finalità di tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, e del suo concreto operato, con un accertamento fattuale che è insindacabile in sede di legittimità, se non per vizio della motivazione nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 28646/2020>> SCARICA IL PDF
fonte altalex.com